Niente
era più malinconico del sigaro avana, longilineo come una matita, che Jack
Lemmon tormentava con i denti nella penombra del suo camerino.
Tra volute
azzurrine, mentre il fumo si addensava pigramente nel cerchio di un paralume
con la seta a brandelli, Lemmon si trovava nel teatro di posa della Columbia,
alla periferia di Hollywood. Era un giorno di festa: era il primo giorno di
lavorazione del nuovo “brillantissimo” film di Lemmon, scritto apposta per
Lemmon.
Il titolo era “Sotto l’albero Yum-Yum” ( una pianta esotica dai frutti
così dolci da dar la nausea)
Lemmon
era di Boston nel Massachusetts, sopra New York. È lo stato dei Kennedy, una
terra di gente che ha radice negli affari, veste monopetti fumo di Londra con
cravatta spenta, e parla un americano sofisticato. Aveva studiato ad Harvard,
che è l’università più snob d’America, ed era figlio di un industriale di
frittelle, prodotte e inscatolate a catena.
Ognuno
si porta dietro nella vita la sua nascita e la sua terra.
Ed era
quindi inevitabile che Jack, riuscito a sfondare ad Hollywood nel ruolo di uno
che deve far ridere invece che far piangere o innamorare, sentisse sorgere,
inarrestabile e polemica, la vocazione per il tono e il distacco di un uomo
d’affari.
Successe
anche a Charlot, cui Lemmon è stato raffrontato: più faceva torcere dalle risa
il pubblico che pagava il biglietto per vederlo nel ruolo di clown e soltanto
di clown, più esigeva la patente di intellettuale. Aveva bisogno di far sapere
che anche i pagliacci hanno un cuore, un sentimento ed un credo politico. Jack
era come Chaplin.
Nascondeva
questa sua infelicità dietro il cerone.
Se
ricordiamo Lemmon in "L'appartamento" di Bill Wilder, o anche in “A qualcuno
piace caldo”, vicino a Marylin Monroe, e il suo travestimento da donna, non
possiamo fare a meno di ridere.
Eppure,
finita la sequenza con Marylin e ottenuto il riposo prima del successivo
“ciack”, Lemmon si toglieva le gonne, buttava con rabbia la parrucca e si
faceva serio e compunto. Poi si avviava in camerino ad aprire, per smarrircisi,
un grosso tomo di archeologia, il suo studio preferito. Quasi che avesse avuto
bisogno di un antidoto. Che il troppo far ridere gli procurasse il fastidio di
se stesso.
Fu
proprio per evadere dal suo personaggio comico che in “Il giorno del vino e
delle rose” Lemmon accettò il ruolo di un alcolizzato. Lo fece così
magistralmente che quasi meritò l’Oscar. Ma i produttori non si convertirono
alle sue qualità drammatiche e stabilirono che Lemmon dovesse rientrare subito
nei ranghi della comicità e continuare nel suo dovere di stimolare il senso di
humor della gente.
Dunque
aveva una grande passione Lemmon quando, facendo sfrigolare il sigaro tra
l’indice e il medio, diceva che avvicinava il dramma e la commedia nello stesso
modo. Ma che si sentiva istintivamente conquistato dal dramma e che il ruolo
drammatico se lo portava dietro, anche fuori dallo studio.
Nessuno quanto un clown vorrebbe recitare
“Amleto” .
Ma la
vera celebrità lo incatenò principalmente ad un solo ruolo, quello comico.
Amava
solo uno sport, lo squash perché non gli permetteva di pensare. Leggeva solo cose
storiche o archeologiche e lo annoiavano le barzellette.
Ma
quando doveva entrare in scena, spegneva l’ennesima sigaretta, si alzava, si
guardava allo specchio, si fissava e piano piano, i muscoli di malavoglia
obbedivano senza ribellarsi, la faccia si trasformava da grave in serena e poi
in ammiccante e faceta.
Lemmon entrava in scena sorridente e diceva:
- “Magic Time !” - sempre prima di ogni sequenza.
Magic Time
? Che significa, se non “incantesimo”? Qual era il senso che Lemmon gli attribuiva
mentre lo ripeteva ad occhi chiusi con tanta ostinazione?
L’incantesimo
che si vuole creare non deve forse corrispondere alle intenzioni di chi ripete
la frase?
E allora può darsi che Lemmon la ripetesse solo perché un sortilegio,
un impossibile gorgo di magia, potesse un bel giorno trasformare il “set” (in
cui gli toccava vestire spaventosi maglioni rossi e calzare pantofole ricamate
adatte a far solletico al mondo) in un palcoscenico elisabettiano dove in una
castigatissima maglia nera ripetesse assorto
“Essere o non essere? ”.
Il suo
ultimo lavoro degno di nota fu la versione di Kenneth Branagh di “Hamlet” del
1996, interpretato da sir. Richard
Attenborough in cui Lemmon recita nella parte di Marcello, una delle guardie
del Re. “Magic Time !”
Lemmon
morì nel 2001.
Babazzurra
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